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Curiosità dal mondo scientifico di aprile

Scopriamo insieme la Belladonna e la vita tormentata di Vincent Van Gogh.

Alla scoperta dell’Atropa Belladonna

L’Atropa Belladonna è una pianta a fiore della famiglia delle Solanacee.
Il suo nome scientifico deve le sue origini dai suoi effetti letali e dal suo utilizzo nel mondo cosmetico.
Atropo era il nome di una delle tre Moire, figlie del Dio Zeus e di Ananke, la Dea del destino. Le Moire erano le tessitrici della vita, decidevano, al momento della nascita, il destino assegnato a ogni persona. Neppure gli dei potevano modificarlo. Atropo, l’inflessibile era la moira più vecchia, che, con lucide cesoie, recideva inesorabile il filo della vita. Si è dato questo nome alla pianta per ricordare la letalità dell’ingestione delle sue bacche.

Perché si chiama Belladonna?

L’epiteto Belladonna fa riferimento a una pratica che risale al Rinascimento: le dame usavano un collirio a base di questa pianta per dare risalto e lucentezza agli occhi a causa della sua capacità di dilatare la pupilla, un effetto detto midriasi dovuto all’atropina, che agisce direttamente sul sistema nervoso parasimpatico.

L’attivo principale della Belladonna è quindi l’atropina, che viene utilizzata come dilatatore delle pupille in oculistica e come miorilassante prima degli interventi chirurgici.

Quando si usa la belladonna?

Oltre all’atropina, la Belladonna possiede altri attivi che le conferiscono azioni spasmolitiche sul tratto gastrointestinale, biliare e bronchiale e parasimpatico stimolante sul sistema nervoso centrale, agendo sul tremore e la rigidità muscolare presenti nella malattia di Parkinson.

La cura bulgara, un decotto di radici di Belladonna preparato dal guaritore Ivàn Raev, venne importato in Italia dalla regina Elena, la consorte del re Vittorio Emanuele III per curare i sintomi parkinsoniani di cui erano affetti i pazienti che erano stati colpiti dalla pandemia di encefalite agli inizi del Novecento.

Quanto è velenosa la belladonna?

I sintomi da avvelenamento da Belladonna insorgono per lo più molto rapidamente e sono caratterizzati da un senso di aridità, di secchezza e di stringimento nella bocca e nelle fauci, nausea e raramente vomito, midriasi con insensibilità delle pupille alla luce, andatura barcollante, vertigini seguite da deliqui, occhi sporgenti, iniettati di sangue, sguardo fisso, stupido o truce, polso frequente, piccolo o pieno e duro, dispnea, emissione involontaria di feci e di orina (paralisi degli sfinteri).

La pelle è calda, sede di prurito intenso, coperta d’un esantema scarlattiniforme. L’avvelenamento in fase iniziale può essere risolto con emetici e purganti. In caso di fase avanzata è necessario somministrare un antidoto, la pilocarpina, alcaloide derivato della pianta Pilocarpus jaborandi.

Geni storici e malattie mentali: Vincent Van Gogh e il disturbo bipolare

Nella seconda metà dell’Ottocento Vincent Van Gogh fu uno dei più famosi pittori del suo tempo, autore di quasi novecento dipinti e di più di mille disegni. Un artista incompreso, che non vendette neppure un lavoro in vita ma che nella sua unicità e genialità influenzò l’arte del XX Secolo.

I suoi quadri, dalle pennellate uniche e inconfondibili che tutti conosciamo sono indubbiamente frutto della sua enorme fantasia e della sua creatività ma in questo caso possiamo anche riconoscere lo stereotipo che impone l’associazione tra genio e follia.

Quale malattia mentale aveva Van Gogh?

Stando alle conclusioni di uno studio pubblicato nel 2020 sull’ “International Journal of Bipolar Disorders”, Vincent van Gogh avrebbe sofferto di disturbo bipolare e personalità borderline. Una condizione aggravata dall’abuso di alcool e dalla malnutrizione.

Perché si è tagliato l’orecchio Van Gogh?

Van Gogh indubbiamente visse due episodi psicotici seguito del ricovero in ospedale dopo essersi tagliato l’orecchio con un rasoio nel 1888. Due momenti “allucinatori”, a cui seguirono forti crisi depressive dalle quali non si riprese mai del tutto.

Oltre a questi disturbi psicotici è probabile che l’artista soffrisse di epilessia focale causata dai danni cerebrali arrecati dall’abuso di vino, assenzio e tabacco, dalla carenza di sonno e dalla stanchezza mentale attraversata negli ultimi mesi della sua esistenza. Ulteriori considerazioni riguardano infine la schizofrenia, diagnosticata all’artista dopo la sua morte e qui esclusa.

Indubbiamente Van Gogh fu un’anima tormentata, ma ricondurre il suo talento solamente al suo tormento sarebbe riduttivo. Godiamoci quindi la bellezza dei suoi quadri, senza i pregiudizi che lo hanno affiancato in vita.

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